Chef’s Table, la nuova mitologia culinaria
Oltre il concetto di cucina pop.
Credo che sia sotto gli occhi di tutti (molto chiaro e ben visibile) quanto la cucina sia diventato un tema presente e pervasivo nella tv odierna. Ogni broadcaster cerca in qualche modo di inserirla nel proprio palinsesto in varie forme, principalmente sotto quella della competizione e qui i titoli sono moltissimi, da Masterchef, a Cuochi e fiamme, da La prova del cuoco a Hell’s Kitchen. La competizione si declina in altre forme ancora: sfide tra professionisti o aspiranti tali o ancora persone che semplicemente cucinano a casa propria e sognano di aggiungere alla propria collezione un nuovo set di coltelli professionali. Esistono programmi informativi, su usi e tradizioni culinarie di regioni italiane e paesi internazionali; ci sono quegli show che insegnano alle persone a cucinare o che comunque mostrano delle ricette al pubblico; possiamo trovare anche sfide a chi mangia quantità incredibili di cibo o i piatti più disgustosi e insalubri che si possono scovare in giro per il mondo; e infine esistono anche altre varie cose da incubo (cucine, hotel, ecc.). Ce n’è per tutti i gusti.
Chef’s Table. Perché questo show rappresenta una novità rispetto alla enorme varietà di programmi sulla cucina?
Per rispondere a questa domanda si deve fare prima un passo indietro, andando a individuare cos’è che renda così celebre e diffusa la cucina in tv.
Prima di tutto un cambiamento a livello di percezione socio-culturale: il cibo non è più soltanto un bisogno primario, la necessità di sfamarci per sopravvivere. Il cibo è tradizione, è cultura, è stare insieme, è addirittura arte. La società dell’abbondanza ha trasformato un bisogno primario nel culto della bellezza e dell’estasi sensoriale, esaltando l’attenzione verso un interesse soprattutto estetico per il cibo (Scaglioni, 2013).
La cultura proveniente dal talent ha fatto il resto. Se gli chef possono andare in tv e diventare famosi, allora tutti vogliono essere chef. La percezione comune è che la tv permetta di ottenere il successo desiderato in modo più facile, saltando la formazione in costose scuole e la faticosa gavetta nei ristoranti. È il mito del self-made man ai tempi di Internet.
Infine la cucina è immediatezza. Ok, non tutti sono capaci di comprendere un piatto di Massimo Bottura, però distinguerne uno buono da uno cattivo o una ricetta efficace da una fallace non esige competenze estremamente specialistiche. Soprattutto in Italia dove la vita quotidiana è pervasa dalla cultura del cibo.
Chef’s Table è tutto questo, ma va completamente oltre il concetto di cucina come momento pop. In Chef’s Table il cibo è presentato come espressione massima di sperimentazione artistica e sensoriale, è la forma d’arte più completa che esista.
La serie, prodotta da Netflix, esce nel 2015: sei episodi da quaranta minuti ciascuno. Racconta in forma di documentario la vita di alcuni dei migliori e più creativi chef al mondo. I contenuti sono diretti da David Gelb, già regista di Jiro Dreams of Sushi (Kevin Iwashina, Tom Pellegrini, 2011). Jiro Dreams of Sushi è un film-documentario che narra la vita di Jiro, proprietario di un celebre sushi bar a Tokio. Come sottolineato dal Guardian, questo docufilm non racconta tanto il rapporto tra Jiro e i suoi ospiti all’interno del suo ristorante e attraverso i suoi piatti (Rayner, 2015), quanto la vita di Jiro, il suo pensiero, il suo modo di lavorare e concepire il cibo.
“His dedication to his tradecraft is guaranteed to put you and everyone you know to shame. In Jiro’s regime, apprentices – one of whom is his eldest son Yoshi, who at 50 is considered still too green to take over the family business – must spend 10 years learning to use their knives before they’re allowed to cook even eggs. The goal? To become a shokunin, a skilled craftsman, someone who does the same exact thing every day to the highest possible level in the neverending pursuit of perfection.”
Come dichiarato da Gelb stesso Chef’s Table non vuole solo raccontare la cucina, vuole mostrare le vite straordinarie di alcuni tra i personaggi più creativi sul pianeta. I ristoranti al centro delle riprese non rappresentano affatto lo stile di vita glamour e scintillante che nell’immaginario comune descrivono l’alta cucina. I ristoranti sorgono spesso in luoghi sperduti, selvaggi e difficoltosi da raggiungere, gli chef appaiono come eremiti dediti completamente alle proprie sperimentazioni, come persone che vivono solo della e nella loro arte. Il tutto condito da una fotografia tesa a esaltare l’equilibrio e la bellezza e una sound track che enfatizza la sacralità del momento in cui i piatti vengono creati, per la precisione una ricomposizione de Le quattro stagioni di Vivaldi, a cura di Max Richter.
Insomma, Netflix si conferma ancora una volta un pioniere nella sperimentazione a livello di serialità. Prendendo una tematica inflazionata come quella della cucina e riportandola a qualcosa di elitario e raffinato, dandogli un volto artistico e sperimentale e creando attorno agli chef protagonisti un’aura di sacralità, come eroi della mitologia greca, che ogni tanto entrano in contatto con i pochi che hanno la sensibilità nel capirli, per donargli un qualcosa di unico e speciale. E Chef’s Table (giunto nel 2016 alla seconda stagione), nonostante racconti la cucina in questo modo molto lontano dai programmi più celebri sul tema, è stato così apprezzato dalla critica e dal pubblico, che è già stato riconfermato già per le prossime tre stagioni.