Making a Murderer, fare dell’orrore l’intrattenimento
Dal crime a Girard, le tecniche per rendere godibile Making a Murderer, una storia di sopprusi e ingiustizia
Steve Avery, dopo aver scontato diciotto anni di prigione per uno stupro che non aveva commesso, viene accusato di omicidio. E’ tutto qui, in breve, Making a Murderer, serie tv documentaristica che sta monopolizzando l’attenzione sia del pubblico che della critica.
Il documentario si snoda per quasi dieci ore. Dieci ore in cui si sussegueno, nello spettatore, sentimenti per lo più pesanti e negativi: indignazione, rabbia e orrore. Si potrebbe, quindi, pensare che la visione di Making a Murderer risulti particolarmente ostica e faticosa. Invece è totalmente l’opposto: in perfetta formula Netflix, a ogni fine episodio, se ne vuole sempre di più. Il che è comprensibile nell’ottica di una serie nata per il binge watching come House of Cards, ma come è possibile che sia così anche per un documentario su un’ingiustizia giudiziaria tanto palese? La risposta è duplice e degna di un’analisi più approfondita: si punta su una struttura narrativa particolarmente attenta alla suspanse, e alla costruzione di un rapporto empatico fra spettatore e Steve Avery.
Making a Murderer si fonda su una domanda: Steve Avery sarà condannato per l’omicidio di cui è accusato? Non è la sua colpevolezza o meno, che viene analizzata. Fin dalle prime puntate, lo spettatore è infatti portato a considerarlo innocente. (Posizione, è bene specificarlo, presa, seppur estremizzata, anche per una precisa decisione etica in aderenza alla presunzione di innocenza per qualsiasi imputato.) Concentrarsi su questo punto, assoluzione o condanna?, mantiene compatto il racconto, evitando che lo spettatore perda la concentrazione o si distragga dal punto focale della serie: il processo di Avery.
Alla preparazione e al lunghissimo processo è, infatti, dedicata tutta la parte centrale di Making a Murderer. E’ in queste puntate che emerge tutto il potenziale da serialità crime e legal: con un succedersi di colpi di scena, prove e controprove, la sorte di Steve Avery oscilla continuamente fra la condanna e l’assoluzione. E’ evidente, in questo caso, il debito che ha Making a Murderer nella costruzione narrativa nei rispetti dei vecchi romanzi d’appendice ottocenteschi che vivevano di cliffhanger.
Ma, perché questa struttura imperniata sulla suspanse abbia successo è necessaria una premessa a monte: che allo spettatore importi qualcosa delle sorti di Steve Avery. Ovvero, che lo spettatore possa empatizzare con lui. Ricordarsi e sentire il peso della posta in gioco – l’ergastolo – è fondamentale soprattutto nel momento in cui, vuoi per il processo, vuoi perché impossibilitato a rilasciare delle interviste vere e proprie, la presenza sullo schermo di Avery è decisamente ridotta. Questo ostacolo è superato grazie a René Girard.
Nel suo saggio, Il Capro Espiatorio, René Girard analizza diversi miti e documenti storici, cercando di arrivare al grado zero della creazione del processo vittimario. Ovvero, si propone di identificare quelle caratteristiche per cui un singolo o gruppo di individui divengono bersagli della furia colpevolizzante di un’intera società. Come, per esempio, gli ebrei durante le pesti cinquecentesche. La particolarità dei documenti studiati da Girard è che sono stati scritti dalla società persecutrice. Ciò rende possibile, quindi, individuare le colpe e le atrocità imputate al capro espiatorio di turno.
Fra le diverse caratteristiche individuate da Girard, tre sono particolarmente interessanti nel caso di Steve Avery e di Making a Murderer: un deficit fisico e/o psicologico ben chiaro; la mancata omologazione con la società; l’astio a stento represso del gruppo dominante.
L’intera prima puntata è dedicata a costruire questo discorso vittimario. Steve ci viene presentato come un buon uomo, gentile, ma al limite del ritardo mentale (un quoziente intellettivo di settanta). L’intera famiglia Avery vive ai bordi della città, in una via che ha il loro stesso nome. Più di una volta viene sottolineato come non si siano mai integrati nella vita cittadina. Ancora più importante è il terzo e ultimo punto, l’astio. Prima di essere accusato dell’omicidio, su cui si basa Making a Murderer, Steve Avery fu condannato per uno stupro che non aveva commesso. Passò diciotto anni in prigione. Prima ancora furono registrati, più o meno legalmente, altri reati minori, da atti osceni in luogo pubblico a maltrattamento di animali. Si viene così a creare, fin dal pilot, una sorta di cronologia della persecuzione. Lo spettatore ha l’impressione, chiara dal primo momento, di trovarsi di fronte a una vittima, a un capro espiatorio scoperto. Su questo aspetto, quindi, Making a Murderer costringe emotivamente lo spettatore a schierarsi, inevitabilmente, per Avery, con un moto di pietas umana per il più debole.
Il problema per Making a Murderer è l’ambiguità. Il fatto che, in fondo, Steve Avery potrebbe aver commesso l’omicidio di cui è stato accusato. Per evitare che questo dubbio possa insinuarsi nello spettatore e alienarlo, si è ben attenti alla costruzione di un racconto fondamentalmente emotivo, di pancia. Non a caso le prime immagini che si vedono sono di Avery che viene rilasciato dopo diciotto anni di prigione ingiusta. Grande spazio, inoltre, è lasciato al racconto dei parenti più stretti, verso cui è impossibile non empatizzare con il loro dolore. E, inoltre, fondamentale importanza ha, in un racconto in cui manca la sua voce diretta, il continuo utilizzo di primi piani sul volto profondamente emozionato, nel bene o nel male, di Steve.
Delineato Avery come la vittima, l’uomo per cui è impossibile non provare pietas, Making a Murderer punta altrettanto emotivamente nella raffigurazione delle altre figure. Gli avvocati di Steve, Dean Strang e Jerome Buting, divengono, così, i paladini di una giustizia in pericolo. Ma soprattutto è Ken Kratz, procuratore dell’accusa, a diventare la figura mefistofelica contro cui scontrarsi. Qui va sottolineato come la sfortuna di Kratz sia quella di essere una delle persone più spiacevoli che si possano mai incontrare, indipendentemente dal suo ruolo in Making a Murderer.
Tutto questo, la struttura narrativa, il processo vittimario, la costruzione di personaggi più che persone, portano lo spettatore ad appassionarsi spasmodicamente alla storia raccontata da Making a Murderer. Non solo. Specialmente negli Stati Uniti, gli spettatori hanno iniziato ad analizzare certinosamente ogni singola puntata della serie. Come si faceva ai tempi di Lost e dei mind game film, lo spettatore si ritrova così coinvolto, emotivamente e psicologicamente, da cercare di unire tutti i singoli punti, alla ricerca di una verità che deve essere là fuori, o meglio, là dentro. Fiction o documentario, fa ben poca differenza.